Franco Centro vive e muore anche oggi

Quattro racconti in prima persona scritti da Susanna Gianotti. Storie di giovani d’oggi che come il partigiano quattordicenne Franco Centro hanno sacrificato la vita o la propria libertà per difendere quella di tutti.

  • I racconti sono stati letti da Maurizio Dardanello, Alice Toselli, Bader Bouchama e Sara Bezzi alla commemorazione di Franco Centro, il 15 febbraio 2020.

TAWFIK BENSAUD
(1995 – 2014)

“Per cambiare le cose non bastano i militari, ci vuole un movimento civile, e noi giovani, se ci danno una possibilità, troveremo soluzioni non violente alle crisi della Libia”. Questo è il messaggio che ho scritto nel mio blog, e per questo intervengo sempre nei dibattiti a scuola, per questo li organizzo, per parlare della situazione politica del mio paese e di quello che noi giovani possiamo fare se ci lasciano lo spazio.
Sono andato anche a una conferenza a Tunisi, ho partecipato al forum di Tripoli, ho parlato alla radio e ho scritto per i giornali online. Questa settimana ci siamo trovati insieme, noi attivisti sul territorio, per decidere come muoverci politicamente nei prossimi mesi. Ci sono tanti sequestri di persone aBenghazi e troppa violenza, non c’è libertà, ci sono estremisti religiosi in tutto il paese.
Ma noi possiamo fare la differenza, l’ho scritto sul blog ed è ancora vero, non cambia niente se, mentre guidavo la macchina di mio padre, sono usciti da dietro la curva e l’hanno crivellata a colpi di mitragliatrice, non cambia niente se sono morto soffocato nel mio sangue. Il mio messaggio rimane.

HANDE KADER
(1993 – 2016)

La polizia mi ha scortata via mentre piangevo, dopo che le forze di sicurezza ci avevano dispersi con gli idranti e i lacrimogeni. Non è vietato dalla legge essere come noi, ma ci trattano come se lo fosse, come animali. Quella volta il governo aveva proibito il Pride appena prima che iniziasse, ma noi abbiamo continuato. Le mie foto in lacrime sono diventate famose. La puttana transessuale più conosciuta della Turchia.
Nei miei pochi anni sono sempre andata a tutte le manifestazioni, perché io lo so che fatica è il desiderio di libertà a tutti costi, anche se vuol dire cambiare corpo. Allora sono diventata, dicono, un’icona LGBT, e dev’essere per questo che è toccato a me. Mi hanno caricata in macchina, mi hanno stuprata e riempita di botte. Mi hanno ammazzata, fatta a pezzi e data alle fiamme.
Quando i miei amici hanno convinto la polizia a cercarmi, il mio corpo buttato lungo la strada era impossibile da riconoscere. Ma non le protesi: le mie gran tette ottenute con così tanta fatica avevano un numero di identificazione, e così la Turchia è scesa in strada, e il mondo ha visto, per un attimo, la vostra bruttura.
Vi dev’essere sfuggito il dettaglio, quando vi siete liberati di me.

DELMONTE JOHNSON
(1999 – 2018)

Ho accompagnato mio fratello all’allenamento perché non mi sta bene che ci vada da solo, nossignore, non mi piace, qui nessun posto è sicuro in nessunissimo momento anche se io faccio la mia parte, tutti i giorni faccio la mia parte, io che vado a tutte le riunioni e manifesto e con i ragazzi ho organizzato anche un forum contro la libera circolazione delle armi da fuoco, e le serate open mic e la petizione cittadina per chiedere più soldi per noi, i ragazzini neri di Chicago, più soldi per noi per darci spazi sicuri dove stare, più soldi per noi per aiutarci a trovare lavoro, più soldi per noi per la cura della salute mentale, per guarirci dai traumi perché qui sparano per strada, tutto il tempo qui sparano per strada. E facciamo tutte queste cose ma ci lasciano soli, soli con le sparatorie nelle scuole, ci lasciano soli con le rapine a mano armata andate storte, soli con le pallottole vaganti dei regolamenti di conti.
E mi lasciano solo mentre la macchina rallenta, e mi lasciano solo mentre il finestrino si abbassa, e mi lasciano solo mentre esplodono due colpi, solo, qui sdraiato per terra, solo, con il sangue che mi cola dalla pancia e mio fratello che mi tiene la mano e mi dice che va tutto bene va tutto bene Delmonte non avere paura va tutto bene. E mi lasciano solo a morire ammazzato in mezzo alla strada, e adesso non mi dite che quella pistola andava davvero venduta.

MAYS ABU GOSH
(1998 – detenuta nella prigione di Damon)

Hanno buttato giù la porta di casa mia, hanno mandato in pezzi le tazze sul tavolo e sfondato sedie e vetrine dei mobili. Mia madre urlava e piangeva, mio padre è stato colpito quando ha cercato di proteggermi. Avevo assistito a una conferenza per la liberazione della Palestina, avevo parlato alla radio di mio fratello morto, preparavo un reportage su una ragazza freddata a colpi d’arma da fuoco mentre era a terra ferita. Studiavo giornalismo – lo studierei ancora, fuori dalla prigione.
Mi hanno portata via in manette, bendata, con le canne delle armi puntate addosso. Negli interrogatori mi hanno spintonata, presa a pugni, a calci. Mi hanno tenuta sveglia a forza, mi hanno lasciata quasi a digiuno su un materasso bagnato. Hanno arrestato il mio fratellino, rinchiuso me in prigione in attesa di giudizio.
Dicono che ho cospirato col nemico, che ho fabbricato armi, che raccolgo fondi per i nemici di Israele. Che sono una terrorista. La mia vera colpa, e quella di chi è come me, è che sono una studentessa palestinese che non vuole tacere e faccio attivismo in università.
Siamo centinaia, qui dentro.
Guardateci.

 

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